Gli echi musicali di Buzzati

Dino Buzzati,  autore del simbolico e a volte misterioso “Il Deserto Dei Tartari” (1940), uno dei romanzi meglio riusciti del Novecento, è stato un artista di eccezionale poliedricità.

Autore: Redazione

9 Aprile 2016

Lo si ricorda infatti anche come giornalista (cronista, redattore e inviato di guerra), pittore (il suo stile ricorda il Simbolismo e alla metafisica di De Chirico), drammaturgo, costumista, librettista e scenografo (si vedano le collaborazioni con Stravinskij e Fellini).

Non solo, Buzzati in età infantile studiò il violino e durante l’adolescenza il pianoforte.

“Ho studiato da principio il violino. Io mi ricordo, proprio in questa stanza qui, studiavo il violino — avrò avuto nove anni, allora — con un accanimento folle. Tre ο quattro ore al giorno. […] Ho amato moltissimo la musica classica. Ho avuto una mania tremenda per Bach.”

Tra i suoi scritti maggiori, oltre al già citato masterpiece e ai suoi numerosissimi scritti giornalistici (di grandissima importanza), si ricorda Il Segreto del Bosco Vecchio (1935), la raccolta di racconti vincitrice del Premio Strega Sessanta Racconti (1958) e Un Amore (1963).

L’Autore inizialmente ebbe maggiore risonanza all’estero, soprattutto in Francia, mentre in Italia si tendeva a considerarlo un autore di “novellette” da poco conto.

I critici, si sa, una volta che hanno messo un artista in una casella, ce ne vuole a farli cambiare parere”

Essendo entrato in contatto con le più disparate esperienze artistiche, Buzzati riesce, nei suoi scritti, a dare vita a descrizioni all’interno delle quali assistiamo all’incontro e alla fusione di arti diverse.
Qui di seguito si riporta un brano, tratto dal capitolo XIII, esemplificativo di questa sua capacità nel congiungere, ad esempio, la letteratura, la musica e la pittura:

“Così cominciò quella notte memorabile, attraversata dai venti, fra dondolii di lanterne, insolite trombe, passi negli androni, nuvole che scendevano a precipizio nel nord, si impigliavano alle cime rocciose lasciandoci attaccati brandelli, ma non avevano tempo di fermarsi, qualcosa di molto importante le chiamava.”  (cap. XIII)

In questo paesaggio naturalistico possiamo riscontrare l’uso impressionistico di immagini sonore e pittoriche delle quali Buzzati si serve per immergere il lettore all’interno della narrazione.

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D. Buzzati – Piazza del duomo di Milano (1952)

 


 

Vediamo ora l’importanza che riveste la musica nel capolavoro assoluto dell’autore .

Tutto il romanzo, eccellente esempio di “corpo sonoro”, è accompagnato, capitolo dopo capitolo, dal perpetuarsi di ricchissimi sottofondi musicali e di numerosi effetti sonori delle parole, tipici del suo stile. Questi ultimi contribuiscono a stendere un vero e proprio “tappeto armonico” lungo tutta la narrazione.

“Drogo scende in giardino, e fra il silenzio triste della notte gli giungono incerti echi di valzer, mentre, più da lontano, lenti e metodici accordi di piano risuonano nell’aria mite della sera.”   (cap. XVIII)

Senza dubbio l’accompagnamento musicale non ha il solo scopo di adornare o arricchire la narrazione di per sé già convincente e appassionante, ma spesso, come ne “Il Deserto Dei Tartari”, la musica è indissolubilmente legata al ricordo: sono alcuni suoni e melodie a far tornare alla mente del protagonista i momenti dell’infanzia

Nella sua casa, in città, gli orologi, uno dopo l’altro, con voci diverse, adesso suonavano le dieci, ai rintocchi tintinnavano lievemente i bicchieri delle credenze, dalla cucina giungeva un’eco di risata, dall’altra parte della via un canto di pianoforte. (cap.VI)

Non solo, in alcuni casi la musica e i suoni che scaturiscono dalla natura stessa, sono forieri di annunci a volte misteriosi.

Benché trionfasse la notte, il vento cominciava a soffiare fra le merlature portando ignoti messaggi, benché dentro alla ridotta si ammucchiassero dense le tenebre e l’aria fosse umida e ingrata. (cap.VI)

Ma c’è di più. Ce lo dice Buzzati stesso: la musica parla della vita, dell’uomo, è espressione dei propri sentimenti, dei propri desideri, delle proprie incapacità, del mistero incomprensibile della vita.

Era l’acqua, era, una lontana cascata scrosciante giù per gli appicchi delle rupi vicine. Il vento che faceva oscillare il lunghissimo getto, il misterioso gioco degli echi, il diverso suono delle pietre percosse ne facevano una voce umana , la quale parlava parlava: parole della nostra vita, che si era sempre a un filo dal capire e invece mai. (cap. X)


Prima di entrare nel particolare ricordiamo brevemente la trama de “Il Deserto Dei Tartari”.

Il protagonista è Giovanni Drogo, un tenente mandato in servizio presso la Fortezza Bastiani, relegata in cima ad una scoscesa montagna. La fortezza è un luogo ormai abbandonato e pressoché dimenticato, ma la perenne attesa di un nemico, i Tartari, che rappresenterebbero il sogno di una gloria da conquistare e di un destino su cui riporre la propria fiducia, vincola tutti i militari ad una ferrea disciplina. Quando Drogo giunge alla Fortezza, è un giovane tenente convinto di trascorrere in quel luogo desolato solo qualche mese, per poi tornare alla vita di prima. Dopo poco però, la pacata e monotona vita della Fortezza Bastiani farà misteriosamente presa sul protagonista… 


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D.Buzzati – Gli apriranno?  (1958)


Andiamo nello specifico. Vediamo ora un capitolo cruciale, il XIX: qui Buzzati descrive con struggente amarezza l’incontro del giovane protagonista Giovanni Drogo con la bella Maria, sua vecchia fiamma. L’incontro è dovuto al ritorno dopo tanti anni di Giovanni nella sua città per una licenza richiesta dalla madre.

Si intuisce che i due sono stati innamorati ma non essendosi visti per molti anni, qualcosa è cambiato. Sembra che entrambi vogliano ricominciare la relazione ma che, nello stesso tempo, i due siano accomunati non solo dal timore di dimostrarlo all’altro, ma anche il desiderio che sia l’altro a fare il primo passo.

Giovanni e Maria non riescono a parlarsi come vorrebbero e, in tal modo, arrivano a credere nell’indifferenza dell’altro.

Tutto il racconto, i sentimenti dei personaggi, quel qualche cosa che si era messo fra loro, forse un muro di incomunicabilità che li separa, è accompagnato dal suono di lontani accordi di pianoforte, tristi metodici, che salivano salivano, riempiendo l’intera casa, e c’era in quel suono una specie di ostinata fatica, una difficile cosa da dire che non si riesce a dire mai.

La musica che accompagna il triste dialogo nella sua interezza risulta essere, in questo caso, una sorta di specchio dei sentimenti che provano in quel momento i due interlocutori.

Entrarono nel grande salotto, perché fuori c’era troppo sole; la stanza era immersa in una dolce penombra […] Drogo la fissava negli occhi senza trovare le parole ma lei vivamente portava gli sguardi attorno, un po’ su di lui, un po’ ai mobili, un po’ a un suo braccialetto di turchesi che sembrava nuovissimo.

Maria rompe il ghiaccio: “Chissà quante cose hai da raccontare!”
Oh” fece Drogo “Niente di speciale davvero, è sempre la…”.
Ma perché mi guardi così?” chiese lei “Mi trovi così cambiata?”
No, Drogo non la trovava cambiata […] non riusciva a trovare più il tono di una volta, quando si parlavano come fratelli e potevano scherzare di tutto senza ferirsi…

La confidenza di una volta è svanita col tempo, insieme alla capacità di scherzare, di ridere, di parlarsi veramente. Drogo, da parte sua, sembra non riconoscerla più: Maria è fredda con lui, seria, si comporta in modo apparentemente artificioso.
Drogo avrebbe voluto tirarla per un braccio e dirle “Come ti viene in mente di fare così la persona seria?”Il gelido canto sarebbe stato spezzato. Ma Drogo non se ne sentiva capace. Difronte gli stava una persona diversa e nuova, i cui pensieri gli erano sconosciuti. Lui stesso, forse, non era più quello di un tempo, ed era stato lui a cominciare un tono falso.

Maria non fa il passo in avanti ma cerca di dare l’abbrivo a Giovanni chiedendogli “Sei venuto per restare?” “Dipende da te” Aveva pensato di rispondere.
Ma Giovanni non riesce forse perché non non è facile stabilire con esattezza che cosa si vorrebbe.

O forse perché Giovanni, nel quale un tempo fermentavano teneri desideri, crede che gli uomini, per quanto possano volersi bene , rimangano sempre lontani; che se uno soffre, il dolore è completamente suo, nessun altro può prendere su di se una minima parte; che se uno soffre, gli altri per questo non sentono male, anche se l’amore è grande, e questo provoca la solitudine della vita.

O ancora, per il fatto che Giovanni forse si è convinto di essere solo al mondo e fuor che lui stesso nessun altro lo amava e che in tutto il mondo non c’era un anima che pensasse a Drogo, ciascuno basta appena a se stesso. Crede forse di essere il solo tormentato da paure e desideri.

Il dialogo continua e Maria prova a più riprese e con gran fatica, a cercare di dire quel qualcosa di difficile e che non si riesce a dire mai, proprio come quegli accordi che accompagnano di sottofondo tutto il dialogo.

Ma adesso ti fai trasferire, no? Deve essere una bella noia lassù”
Un po’ noioso forse, certo preferisco stare qui con te”.
Questa misera frase balenò nella mente di Drogo come una coraggiosa possibilità.
Era banale, però forse sarebbe bastata. Ma di colpo
ogni desiderio si spense.

Si udiva il suono del pianoforte, ma perché quegli accordi continuavano a salire senza concludersi mai?[…] La conversazione, nel salotto che aveva odore di fiori, pareva lentamente acquistare una poetica mestizia, amica delle confessioni di amore.

Giovanni pensa Forse potremmo ritrovarci.. può darsi mi voglia ancora bene”.
Niente da fare, non riesce a parlare.

Il pomeriggio già moriva, la voce del pianoforte si era fatta fioca, fuori nel giardino un uccellino isolato ricominciava a cantare.
Ci sarebbe voluta una parola, una semplice frase per dirle che la sua partenza gli faceva dispiacere […] ma Drogo in quel momento non era capace davvero. […] Lei taceva, come aspettando che Drogo le parlasse, e lo guardava forse con un residuo d’amore . Entrambi si accorsero che era tutto finito.
Adesso erano di nuovo lontani, fra essi si apriva un vuoto, invano allungavano le mani per toccarsi, ma ad ogni minuto la distanza aumentava.

Una domanda sorge spontanea dopo aver letto il dialogo: cos’è che non sono riusciti a dirsi Giovanni e Maria? Non sono riusciti a confessarsi di amarsi ancora. Non sono riusciti a mostrare di avere bisogno uno dell’altro.

Giovanni, come ogni uomo, non era capace di bastare a se stesso, in lui fermentavano teneri desideri, un presentimento o una speranza di cose nobili e grandi.

Ai due protagonisti del dialogo verrebbe da rispondere con un aforisma di Oscar Wilde:“Ciò che non abbiamo osato, abbiamo certamente perduto”.

Per concludere, appare evidente come questo capitolo sia esemplare di come il connubio testo-musica possa essere efficace e di come la letteratura cerchi nel discorso musicale un mezzo di espressione capace di arrivare lì dove la parola non riesce.

Il Deserto Dei Tartari è la storia di una attesa probabilmente vana, ma, in in questa ricerca che non giunge mai ad un compimento, ad accompagnare il protagonista intervengono pennellate surreali e melodie consolatorie. Tuttavia il protagonista arriverà al punto in cui dovrà fare i conti da solo con l’unico vero combattimento ineluttabile, quello con la morte.

No, non pensarci. Drogo, adesso basta tormentarsi, il più oramai è stato fatto. Anche se ti assaliranno i dolori, anche se non ci saranno più le musiche a consolarti e invece di questa bellissima notte verranno nebbie fetide, il conto tornerà lo stesso. Il più è stato fatto, non ti possono più defraudare. (cap.XXX)


Paolo Di Piramo


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