La mia prima opera, o come imparai a non preoccuparmi e ad amare Rossini

La nostra recensione della Cenerentola romana

Autore: Enrico Truffi

29 Gennaio 2016
Questa che segue, cari lettori, è la tanto attesa (?) recensione della Cenerentola di Gioacchino Rossini attualmente in programmazione al Teatro dell’Opera di Roma, ma è anche la storia di un percorso di formazione, e di un rapporto conflittuale con l’Opera in generale. Già vi sento dire “Chi ti ha chiesto niente”, ma lasciatemi fare questa breve introduzione così ce ne andiamo tutti a casa prima.

Nel corso del mio inevitabile e progressivo invecchiamento, sono stato costretto a rivalutare molte cose che nel mio furore iconoclasta degli anni giovanili avevo volutamente trascurato, tipo la musica Jazz, l’arte astratta, i broccoli e non ultima la musica operistica. E so benissimo di non essere il solo. Chi di voi che mi legge non ha mai pensato almeno una volta che l’opera sia una faccenda seriosa per vecchi ammuffiti, che le voci operistiche siano tutte uguali e non si capisca niente di quello che dicono e che comunque costi un bel po’ di danari e che si possa tranquillamente vederla a casa senza il minimo sforzo? Solo su questo punto si potrebbe aprire un intero paragrafo, ma lasciamo perdere.

L’importante è che in un modo o nell’altro (senza bisogno di ricorrere alla violenza) sono entrato in possesso del biglietto per “La Cenerentola” di Rossini, con la regia di Emma Dante, e che questo sabato sono andato armato fino ai denti di spirito critico per darvi la mia preziosa opinione. E come è andata? direte voi. Beh, per cominciare sono sopravvissuto, cosa non scontata dato che il mio posto era nei palchi più laterali e in alto del Teatro, e per vedere qualcosa oltre che la forfora dei musicisti bisognava sporgersi non poco. E L’opera com’era? L’allestimento?

Allora, cominciamo con ordine, dalla prima cosa che ho sentito, cioè l’orchestra. Alla direzione c’è un giovane avvenente, Alejo Perez, che dirige molto correttamente e rispettosamente la partitura di Rossini. Già dall’Ouverture mi è sembrato in generale che abbia fatto un lavoro molto buono, ma che manca di quella forza e quell’energia che Rossini richiede a volte, ma tutto sommato in questo modo la chiarezza è stata privilegiata e quindi non sono stato neanche troppo scontento.

Inizia l’opera vera e propria, e si vede subito l’idea portante di questo allestimento; Cenerentola viene “moltiplicata” in tanti automi meccanici, che per procedere hanno bisogno di una “carica” a molla, cosa che mi ha ricordato non poco la bambola meccanica del Casanova di Fellini.

È stato ottimo in questo senso il lavoro fatto sui ballerini, che rendono con un ballo a scatti i movimenti degli automi. In questa scelta registica quindi c’è subito il bisogno di rileggere la Cenerentola nella chiave di una dialettica di potere, spesso ribaltata, fra servi e padroni.

Lo scambio di ruoli fra Don Ramiro e il suo servo Dandini, perciò, sarà esemplificativo di tutto questo, e dunque anche il Principe , travestito da servo, avrà i suoi replicanti meccanici. Alla fine, però, gli “oppressi” della messinscena avranno una rivalsa finale nei confronti degli oppressori rappresentati dalle due sorelle (Anastasia e Genoveffa, per capirci) e il patrigno di Cenerentola, Don Magnifico, i quali diverranno a loro volta automi meccanici dopo la loro sconfitta, e di conseguenza, servi di Cenerentola e Don Ramiro. Un’altra scelta registica interessante è stata quella di porre l’accento sull’ipocrisia dei rapporti sociali e delle convenzioni dell’epoca, che raggiunge l’apice nel ballo a casa del Pincipe, dove le smorfiose damigelle di corte, tutte vestite di bianco, si profondono in sorrisi e inchini, salvo poi celare pistole e fucili dietro le spalle. Insomma, ce n’è per tutti i gusti, e ci si può sbizzarrire in interpretazioni anche più ardite, ma la cosa che interessa a me è che la chiave allegorica non abbia sopraffatto del tutto il piacere del racconto e dell’Opera. Ora che mi sono tolto di mezzo il pezzo in cui dovevo pensare a cosa scrivere, posso parlare di considerazioni varie sulla resa dei singoli elementi. Oltre alla già citata direzione orchestrale, che non fa danni ma nemmeno cose eclatanti, c’è la caratterizzazione delle sorellastre come delle specie di star del pop glamour, una di esse ha addirittura un’acconciatura e degli occhiali alla Lady Gaga (detta così mi rendo conto che suoni come uno stupro di Rossini, ma in realtà per come l’hanno resa era addirittura accettabile).

Un elemento che non ha convinto del tutto, forse per colpa del cantante privo di carisma, è stato il Principe, che è un po’ mollo, un po’ come quelli delle fiabe Disney, (eeh, il potere che la Disney avrà sempre sulle nostre menti) e anche la protagonista, dopo un inizio promettente non raggiunge particolari intensità interpretative. Come al solito il lavoro migliore lo fanno i comprimari, primo su tutti il patrigno, che è un Carlo Lepore decisamente ispirato (il migliore del gruppo, se chiedete a me), che caratterizza alla grande il padre in rovina che ostenta una finta cultura (un tipo di personaggio che può avere precedenti nel Messer Nicia della Mandragola), e anche Dandini, quando si finge Don Ramiro, porta sulla scena molto più carisma che Don Ramiro stesso. Viene il dubbio che questa “svalutazione” dei due eroi principali faccia parte anch’essa del ribaltamento finale in cui sono loro ad essere i “padroni”, ma ho fatto anche troppe congetture. In fondo questa era soltanto la mia prima Opera, e come vedete non era così scontato che da una semplice visione sarebbero scaturite tutte queste riflessioni, anche da qualcuno che, come me, l’opera l’ha sempre ascoltata da lontano. Quindi, anche se non amate l’Opera, come d’altronde ho fatto io per molto tempo, non commettete l’errore di sottovalutarla (come fa almeno la metà della gente che ci va abitualmente), e sappiate che ci può essere dietro molto di più che dei cantanti che non si capisce cosa dicano.

Enrico Truffi


 

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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